Comunicazione e diversità culturale

Estratto da "Communication et diversité culturelle" di Anne-Marie Laulan

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Il termine “cultura” ha almeno due significati e comprende due campi di ricerca. Come ricordava scherzosamente P. Bourdieu, per molti si riferisce alla cultura “colta”, oggetto di musei, celebrazioni e patrimoni vari ma poco apprezzata dalle masse, che preferiscono le arti minori o quelle di strada. Fin dalla scelta delle parole si pone un problema di incomunicazione tra coloro che producono, consumano e diffondono la cultura e coloro che la ignorano, la rifiutano o la concepiscono sotto altre forme e in altri luoghi. La distinzione porta all'esclusione.

In senso sociologico, invece, la cultura comprende tutte le attività umane, dall'organizzazione della famiglia al mondo del lavoro, dagli scambi linguistici alle transazioni commerciali, senza dimenticare valori immateriali, riti, credenze e tradizioni vestimentarie. Già Max Weber evidenziava il paradosso di un rapporto non spaziale con la cultura in senso antropologico; greci, ebrei, cileni e armeni, espatriati o cacciati dalla propria area geografica, conservano gelosamente la propria identità al di là degli oceani, in tutto ciò che riguarda la vita privata. Un esempio sorprendente è quello di Sydney, o di Toronto, dove i quartieri sono così differenziati, perfino nelle tradizioni culinarie, che sotto l'apparente unità della lingua la città si rivela un immenso mosaico di mondi distinti. Vivere uno accanto all’altro non sempre significa comunicare. Dominique Schnapper studia da tempo come le scuole anglosassoni e francesi abbiano stabilito delle regole per vivere, soggiornare e lavorare destinate agli “stranieri”.

Nell'era delle megalopoli e della globalizzazione, vogliamo preservare le nostre differenze ma siamo anche obbligati a vivere insieme. Questo numero della Revue des Sic cerca di chiarire proprio questo paradosso. Come conciliare l'Universale, ciò che accomuna tutta l'umanità, con le infinite varianti che le diverse comunità hanno creato, tramandato e, in alcuni casi, eretto a simbolo della propria identità nel corso dei millenni? Certo, la diversità biologica e l'evoluzione non sono il risultato dell'attività umana, e l'uomo non è un impero nell'impero, come già osservava Spinoza. Ma per via della loro natura riflessiva (consapevolezza del passato, proiezione nel futuro), gli esseri umani plasmano e trasformano l'ambiente e potenziano e migliorano se stessi (strumenti, protesi). La diversità non è il risultato della sola biologia; ognuno di noi ne è attore, fornisce il proprio contributo. Questa costruzione, disparata nello spazio e differita nel tempo, si manifesta nei grandi eventi internazionali come i vertici dell'UNESCO o le esposizioni internazionali (Shanghai 2010). Si tratta di eventi globali, con delegazioni provenienti da tutto il mondo, ma dove ogni stand proclama e mette in mostra la propria “differenza”. Nell’ottica di facilitare la comunicazione, il loro obiettivo è proprio quello di permettere a ogni specifica comunità di esprimersi, di mostrarsi, senza alcun rapporto di dominio politico o di dipendenza economica. Sono circostanze eccezionali, utopie di breve durata, ma necessarie perché la democrazia, come la fusione, è oggetto di una ricerca senza fine. L'antica Grecia e la Cina erano già impegnate in questi grandi incontri comunicativi in cui la diversità veniva esibita, e non negata. Atene, sotto Pericle, riconobbe i diritti dei meteci in cambio di un tributo versato alla città. Una mostra attualmente in corso al Musée du Quai Branly, progettata dallo storico P. Blanchard, illustra la graduale costruzione del concetto di “selvaggio” (comprendente “mostri” e disabili) nell'Occidente cristiano moderno, avvenuta senza che né la Chiesa né i seguaci dell'Illuminismo percepissero l'iniquità di un tale concetto. I segni e le tracce sono numerosi, ma per molto tempo sono stati ignorati; eppure, visitando l’esposizione, è difficile non essere sopraffatti dalla vergogna di fronte a questi manifesti, film e spettacoli da fiera, che sono stati fonte di profitto e di intrattenimento nella completa cecità dei contemporanei.

Questo numero si pone l’ambizioso compito di mostrare, in un ristretto numero di campi, come le istituzioni, i cittadini e i decisori si sforzino di affrontare umanamente, in una prospettiva democratica, un difficile e acrobatico esercizio: come conciliare l’evidente diversità culturale con gli interessi nazionali in un'epoca di globalizzazione economica e di forte competizione tra grandi potenze? Quali sono i regolamenti, quali i punti di attrito, fonte di pessimismo? Quali successi sono stati raggiunti nonostante le fratture iniziali? La “comunicazione” viene esaminata attraverso il prisma delle diverse pratiche e delle situazioni concrete; i progressi del pensiero, e spesso i conflitti, portano a una presa di coscienza collettiva che le istituzioni traducono in risoluzioni e convenzioni internazionali, spesso dopo lunghe battaglie legali e conflitti di interesse. La comunicazione democratica tra le persone è più una questione di utopia che di comportamento spontaneo.

I ricercatori che hanno accettato di contribuire a questa riflessione sono tutti specialisti di uno specifico campo di studio nell’ambito delle scienze della comunicazione. Michel Mathien, titolare di una cattedra UNESCO, denuncia la lentezza della costruzione giuridica e istituzionale del diritto alla rappresentanza mediatica della diversità; mostra inoltre che in Africa o nell'Europa dell'Est il peso della storia e il risentimento dovuto alle dominazioni subite ostacolano talvolta le direttive internazionali.